L’Atto di dolore è la preghiera più conosciuta con cui chiedere perdono a Dio per i peccati commessi. Passo dopo passo ecco cosa significa.
Prima della Confessione, e molto spesso a conclusione di essa su richiesta del sacerdote, si recita l’Atto di dolore, la preghiera della Chiesa per esprimere il proprio pentimento dei peccati.

Non è l’unica formula che esiste, ma è certamente la preghiera più comune e diffusa con cui si manifesta il proprio stato di contrizione.
È una preghiera semplice e breve e racchiude il pentimento degli errori fatti e il proposito di non commetterli in futuro per mantenere una comunione e uno stato di vicinanza con il Signore.
Il peccato infatti allontana da Dio, avviene quando si sceglie liberamente di non seguire i suoi comandamenti e quanto concerne l’insegnamento di Gesù per stare alla sua sequela.
Per fare un esame di coscienza e comprendere dove si è peccato bisogna infatti passare in rassegna i dieci comandamenti, il comandamento dell’amore dato da Gesù che si pone come somma di tutto.
Ma anche meditare sulle Beatitudini e da lì capire quali mancanze sono state commesse. Poi, nel proprio rivolgersi direttamente a Dio prima della Confessione e poi nel corso di questa, di solito a conclusione prima di ricevere l’assoluzione, si recita l’Atto di dolore.
Analisi dell’Atto di dolore: pentimento e propositi
“Mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso Te, che sei infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa.
Propongo con il tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato. Signore, misericordia, perdonami“. È questo il testo della preghiera diffusa da tanti decenni.

Ciò che oggi spaventa alcuni e appare in contrasto con la bontà di Dio è l’espressione “ho meritato i tuoi castighi“. Molti pensano ad un Dio punitivo e vendicativo che ferisce e fa soffrire i suoi figli.
In quest’ottica di un Padre padrone e autoritario certamente anche la frase sarebbe da rigettare. Ma in realtà con quell’espressione il rimando è ad un Padre che educa i suoi figli al bene.
E i “castighi” ovvero la sofferenza delle situazioni di dolore in cui si incappa con il peccato siamo noi stessi a produrle.
Dio non produce il male, se lo permette rientra sempre nel suo disegno di amore, perché lui è la bontà e la misericordia infinita.
Se un padre terreno mette in punizione il figlio che ha fatto una cattiva azione privandolo ad esempio della paghetta o vietandogli di uscire, quelle che cioè sono considerate punizioni e castighi, non lo fa perché vuole vederlo soffrire o per vendicarsi, ma per educarlo e fargli comprendere che le azioni sbagliate hanno come conseguenza un male.
In modo più perfetto Dio non produce ma permette il male come conseguenza del peccato per far comprendere all’uomo che ha sbagliato strada, ma può sempre ritornare su quella giusta.
In epoche passate in cui vigeva un’immagine distorta di Dio, duro e lontano dai suoi figli, e non era messo in primo piano il suo volto misericordioso certamente i castighi potevano avere un significato che non collima con la bontà del Signore.
Ma nell’epoca in cui la Divina Misericordia è riconosciuta e celebrata, in cui Dio è mostrato in tutta la sua bontà amorevole, non c’è da temere un’espressione che nella sua accezione etimologica non significa punizione.

Castighi infatti dal latino vuol dire rendere casti, cioè puri, non punire. Questo è il vero significato della parola così come può essere inteso in relazione all’azione di Dio.